di Antonello Nave
Nei primi giorni di marzo del 1867 Garibaldi fu a Padova, ospite di Paolo da Zara, nel corso del suo intenso tour politico-elettorale nel Veneto, che da poco era diventato parte del Regno d’Italia. Accolto con grandi onori e festeggiamenti, Garibaldi tenne un discorso nell’aula magna dell’ateneo e ricevette lettere di saluto da parte degli universitari del Trentino, di Trieste e dell’Istria. Sia nel palazzo del Bo che in piazza, Garibaldi non mancò di dare accenti spiccatamente anticlericali ai suoi discorsi, sottolineando che l’Italia aveva ancora un cancro al cuore, che andava estirpato quanto prima. Qualche mese più tardi, Garibaldi e le camicie rosse avrebbero provato a dare concretezza a quel proposito metaforico e a realizzare il sogno di una Roma libera dal potere temporale dei papi, con la spedizione che avrebbe avuto il suo infelice esito a Mentana.
Giunta la notizia della morte di Garibaldi, anche a Padova, come in molti comuni piccoli e grandi della penisola, si costituì subito un comitato promotore per la realizzazione di un monumento in suo onore. La relativa sottoscrizione popolare portò in pochi giorni alla raccolta di oltre 6500 lire. Nel dicembre dell’anno successivo la somma risultava di 18.000 lire: il comitato ritenne opportuno sollecitare un ultimo sforzo da parte dei sottoscrittori e della cittadinanza. Raccolto un altro migliaio di lire, nell’estate del 1884 bandì un concorso nazionale, fissando al 15 ottobre la scadenza per la presentazione del bozzetto per un monumento marmoreo a figura intera con relativo basamento, anch’esso da eseguirsi in bianco di Carrara.
Al concorso furono presentati 29 bozzetti, che il comitato volle far conoscere alla cittadinanza in un’esposizione temporanea nel Palazzo della Ragione.
Della commissione giudicatrice furono chiamati a far parte Odoardo Tabacchi, autore del Monumento a Vittorio Emanuele II inaugurato proprio a Padova nel giugno del 1882; Francesco Barzaghi, il cui Monumento ad Alessandro Manzoni era stato da poco inaugurato a Milano; e l’architetto Giacomo Franco, docente dell’istituto di belle arti a Venezia e progettista dell’Ossario di Custoza.
La giuria si espresse in favore del bozzetto intitolato Da Montevideo ai Vosgi. Ne era autore il milanese Ambrogio Borghi, che da qualche anno era insegnante di modellato all’Accademia di Brera.
Borghi si era fatto apprezzare all’Esposizione Universale di Parigi del 1878 per Gioie materne e soprattutto per la folgorante bellezza femminile con cui illustrava La chioma di Berenice (battuta all’asta nel 2011, purtroppo, senza che lo Stato italiano si sia valso del diritto di prelazione). Ambrogio Borghi aveva già ottenuto le prime significative vittorie nel campo della monumentistica di soggetto patriottico: suo il vigoroso gruppo equestre in bronzo eretto nel 1883 a Verona in onore di Vittorio Emanuele II, memore del modello verrocchiesco e piuttosto simile, nell’impianto, all’analogo monumento che Borghi aveva realizzato due anni prima per Novara.
Nella stessa città scaligera aveva partecipato con buon successo al concorso per un monumento equestre a Garibaldi, ma nella successiva e più ristretta selezione di concorrenti la vittoria era andata al veronese Pietro Bordini.
Poté consolarsi con l’affermazione nel concorso padovano, dove, però, la somma a disposizione costrinse il comitato a limitare l’incarico alla realizzazione di una statua in marmo a figura intera, con un sottostante basamento privo di elementi figurativi.
Alla notizia della vittoria del bozzetto presentato da Borghi sorse in città una vivace contestazione, di cui si fecero interpreti sia il corrispondente locale dell’«Adriatico», di impostazione liberal-progressista, sia «Il Bacchiglione», che dava voce alla democrazia padovana.
A detta dei giornali, chi aveva visitato la poco soddisfacente mostra dei bozzetti aveva notato che quello intitolato Simplicior, opera del padovano Natale Sanavio, era “il meno infelice di gran lunga di tutti gli altri” (“L’Adriatico”, 11 e 13 novembre 1884). Presso la redazione del “Bacchiglione” fu organizzata una raccolta di firme per chiedere alla giuria un ripensamento, sia per il valore del bozzetto di Sanavio, sia come segno di apprezzamento per il contesto artistico padovano. I mugugni e le proteste, tuttavia, non sortirono alcun effetto. Il comitato recepì il verdetto della giuria e l’incarico venne formalmente assegnato ad Ambrogio Borghi.
Il comitato promotore ottenne dall’amministrazione comunale, guidata da Antonio Tolomei, di poter erigere il monumento in piazza dei Noli (così chiamata per il servizio di noleggio di vetture lì presente).
Nella primavera del 1886 il basamento era già al suo posto. La statua di Garibaldi giunse a Padova il 22 maggio di quell’anno e due giorni più tardi venne collocata sul suo piedistallo. Fu inaugurata il 3 giugno successivo, a quattro anni dalla morte di Garibaldi, nella piazza che nel frattempo era stata intitolata al Generale.
Per l’occasione «Il Bacchiglione» pubblicò un’incisione del monumento, con Garibaldi in una posa che denotava il suo carattere energico e volitivo a stento sopito, e un’epigrafe dettata dal neonato circolo radicale padovano intitolato al mazziniano Federico Campanella, presieduto dall’avvocato e neo-deputato Alessandro Marin:
Giuseppe Garibaldi / In età codarda il valore italiano / Affermò.
Le sue cento battaglie son cento vittorie / La sua sola sconfitta /
Ogni più grande vittoria / Oscura.
Il Golgota di Aspromonte / Magnanimamente per l’Italia obliò.
Venuto dal popolo / Al popolo diede tutto sé stesso / Onde fu suo ideale /
Un’Italia popolarmente repubblicana / Ricca libera forte.
O Italiani / Se amor vero questo grande v’inspira / Ascoltate la sua voce /
Che vi ammonisce: / “Deh, fate la Patria mia men vile”
Il discorso ufficiale, nella sua veste di presidente del comitato promotore, fu pronunciato dall’avvocato di origini dalmate Carlo Tivaroni, volontario del ‘66 e deputato all’epoca dell’Estrema Sinistra, nonché cultore di memorie storiche risorgimentali. Prese poi prese la parola il nuovo sindaco Francesco Fanzago, medico e docente dell’ateneo cittadino. Al termine della cerimonia il corteo si diresse alla volta del Museo Civico per l’omaggio di un gonfalone. Al ritorno verso il centro cittadino, alcuni studenti universitari tentarono di affiggere un manifesto in cui era riprodotta l’epigrafe dettata pochi anni prima dall’allora sindaco Tolomei per celebrare l’insurrezione quarantottesca, censurata dall’autorità governativa nel timore di irritare il nuovo alleato austriaco.
Ne venne fuori un “parapiglia” tra carabinieri e manifestanti, contro i quali a un tratto un sergente di cavalleria sguainò la spada. I carabinieri si interposero prontamente tra costui e gli studenti, che da parte loro si ritirarono pacificamente, e tutto fini in breve tempo, come apprendiamo dal «Bacchiglione».
In serata, tuttavia, mentre c’era musica in piazza Garibaldi, alcuni manifestanti cominciarono a protestare sotto la redazione dell’«Euganeo», il giornale della destra locale che giorni prima aveva stigmatizzato come “anarchico” il telegramma di felicitazioni inviato da Ruggiero Panebianco, professore dell’ateneo padovano, a nome del circolo radicale ai quattro deputati appena eletti in Polesine, tutti di parte democratica, Furono rotti anche i vetri della sede, secondo quanto riferisce il corrispondente dell’«Adriatico».
A stigmatizzare quella protesta fu anche «Il Bacchiglione», che ne riferì in un trafiletto volutamente distinto dall’articolo relativo ai festeggiamenti per l’inaugurazione del monumento a Garibaldi: “Questa rubrica non può stare nella cronaca della giornata di ieri. Iersera ebbe luogo una manifestazione ostile contro gli uffici del giornale «L’Euganeo». Non abbiamo potuto rilevare come costituita né comprenderne i moventi. Ne comprendemmo tuttavia quel tanto da doverla con tutta franchezza deplorare in nome della libertà della stampa e anche perché ognuno sa che i nostri principii ci fanno contrari a qualsiasi pressione che sostituisca, alla forza della ragione e della discussione, i mezzi violenti che pongono dalla parte del torto anche allorché si ha ragione. Facciamo valere dunque le nostre ragioni colla persuasione e giammai con mezzi che non si possono se non disapprovare”.
Il direttore dell’«Euganeo» affermò che quella grave aggressione non poteva essere stata certo compiuta dagli universitari, ma da una combriccola di facinorosi, che avevano atteso la celebrazione patriottica per vendicarsi di chi aveva apertamente criticato l’opportunità di quel telegramma da parte di un dipendente statale.
La vicenda non ebbe strascichi. Nel frattempo «L’Euganeo» si soffermò sul festoso banchetto che la sera del 3 giugno si era svolta all’Albergo della Croce d’Oro, a conclusione dei festeggiamenti patriottici, con centocinquanta partecipanti tra veterani e reduci, oltre alle immancabili autorità e ai cronisti dei giornali rivali.
Di lì a pochi mesi, nel maggio del 1887 morì lo scultore Ambrogio Borghi.
In anni successivi la piazza Garibaldi diverrà snodo di un trivio e oggetto di pesanti interventi urbanistico-speculativi. Il monumento all’eroe venne spostato presso i giardini dell’Arena (dov’è tuttora) e lì rimpiazzato, per ironia della sorte o per intenzionale contrappasso, da una colonna con la statua della Madonna.
Nel 2011 la maestosa figura di Garibaldi sarà oggetto di recupero conservativo, al pari di quanto accadrà per i monumenti in onore di Vittorio Emanuele II, di Cavour e di Mazzini, in occasione del centocinquantenario dell’Italia unita.